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7 luglio 2019

Piccolo diario per Giacometti - 5

PICCOLO DIARIO PER GIACOMETTI - 5
di Marco Goldin

Sopra la tomba di Giovanni e Bice Segantini, nel cimitero qui a Maloja in alta Engadina in Svizzera dove oggi si conclude il mio piccolo viaggio sulle tracce di Alberto Giacometti, c'è una frase emblematica. È incisa nella pietra di granito, con una colorazione di un verde profondo che si accompagna al verde del pino mugo che le sepolture protegge. "Arte e amore vincono il tempo" e sotto ci sono i loro nomi, vicini, e accanto quelli dei figli. In poche parole è detto il senso per un artista del suo viaggio nel mondo. Fin dai tempi più antichi l'arte ha avuto l'ambizione di vincere la morte, andare oltre il tempo, lasciare una traccia, una memoria, qualcosa che in immagine protratta all'infinito a quello stesso infinito si accompagnasse come l'eco di un canto.

Alberto Giacometti ha cercato questa strada per tutta la vita e non a caso ha amato i volti del Fayum, quegli sguardi umili, di gente sconosciuta che ha valicato i secoli essendosi posta sulla soglia tra la vita e la morte, in un luogo in cui si appartiene insieme all'una e all'altra. Volti dipinti sui sarcofagi o su tavolette da sembrare quasi votive. Da mani sconosciute, non da artisti di corte. Ha amato questa semplicità, questo entrare nel flusso del tempo per non uscirne mai più. Perché l'immagine che evoca un volto e lo precipita nell'eterno toglie potere alla morte, ne annulla la dimensione vittoriosa. E così Giacometti ha cercato anche altrove questo rimando alle origini, come per esempio nella statuaria etrusca, o in culture ancora più lontane. Ha cercato una conferma alla sua ansia di verità, alla sua ansia di vita e ha cercato in ogni modo, in ogni modo a lui conosciuto, di entrare sempre più profondamente in contatto con quella scavata, irrituale, ancestrale forse, immagine di un sé diventato enigma.

Ma occorreva venire qui e percorrere i suoi sentieri tra la Val Bregaglia e Maloja per vedere ciò che davvero era accaduto. Per vedere come il tempo si fissi e poi continuamente ritorni. Passare dal minuscolo cimitero di Borgonovo, accanto alla chiesetta di San Giorgio, dove è sepolto assieme al padre, alla madre e ai fratelli Diego, Ottilia e Bruno. Occorreva scendere a Stampa, vedere la sua casa, l'atelier che divise con il padre Giovanni. Vedere il suo piccolo mondo e poi alzare la testa verso il Piz Duan e i suoi oltre tremila metri di quota. Immaginare la neve, pensare alla neve in questa valle, il croc croc delle scarpe sul ghiaccio, quando il sole per lunghe settimane non faceva capolino. Occorreva vedere anche i fiori della fine della primavera e del principio dell'estate. Perché la vita è fatta di stagioni e tu sai che sempre ritornano. Alberto Giacometti l'ha mostrato nelle sue opere meravigliose, fossero le celeberrime sculture, i quadri sospesi in un loro vuoto o i fascinosi e indimenticabili disegni.

Qui molto più che a Parigi, dove pur ha vissuto quasi ininterrottamente dai suoi vent'anni fino alle ultime settimane di vita prima di rientrare nella culla materna dei Grigioni e della Bregaglia. Perché è qui che accanto alle fonti antiche, dagli Etruschi al Fayum, Alberto Giacometti ha sostanziato di azioni di vita la sua visione del mondo. Non è un caso che una delle sue sculture più belle poste poco dopo l'inizio del nuovo corso, l'abbia intitolata "La foresta", ed è quella con cui ho scelto di illustrare quest'ultima pagina di diario. Quelle figure filiformi, slanciate verso l'alto e quasi verso l'illimite del cielo e dello spazio, hanno origine dalla lunga, lunghissima osservazione dei boschi qui attorno, i boschi che vedo accanto a me mentre scrivo queste note al passo del Maloja. Alberi, alberi e ancora alberi, denudati da Giacometti di tutto e rimasti infine spogli, solo tronco e solo fusto. Rimasti solo spirito. Lui che modellava con le mani le sue figure giunte ormai ai limiti stessi della consunzione, prima piccole poi dilatate dentro misure molto più grandi come i picchi di roccia appuntita che fin da bambino ha visto qui, nella sua valle natale. Le rocce grigie che si staccano improvvise dalla fine dei boschi e poi diventano vetta a incontrare il cielo. Come le figure di Alberto Giacometti, nato a Stampa in Val Bregaglia e qui sempre rimasto con il suo cuore. Ma anche con i suoi occhi.

Ecco, il diario finisce qui. Avevo bisogno di passare qualche giorno in mezzo a queste montagne, per sentirmi unito a lui nello spirito. Per provare a vedere con i suoi occhi, sentire lo stesso silenzio, lasciare che il vento mi si posasse addosso e prendessi la sua stessa pioggia sul Lago di Sils. Avevo bisogno di questo prima di cominciare a scrivere il mio racconto su Giacometti per il catalogo della mostra che si aprirà il 16 novembre nel Palazzo della Gran Guardia a Verona. Si intitola, come forse già sapete, "Il tempo di Giacometti da Chagall a Kandinsky" (www.lineadombra.it, apertura prenotazioni 9 settembre sul sito o chiamando il nostro call center 0422 429999), con oltre settanta opere di Giacometti tra sculture, dipinti e disegni, tutte provenienti dalla prestigiosa Fondazione Maeght in Francia. Oltre a una ventina di dipinti celebri di Kandinsky, Braque, Miró, Chagall e altri, per descrivere il clima a Parigi e in Francia mentre Giacometti viveva e lavorava. Se avete amato questi miei racconti quotidiani su di lui, se avete voglia di approfondire con me la conoscenza di uno dei giganti del Novecento, vi aspetto a Verona a partire dal 16 novembre.



[Alberto Giacometti, La foresta, piazza sette figure una testa, 1950 / Saint-Paul-de-Vence, Fondation Marguerite et Aimé Maeght / © Claude Germain - Archives Fondation Maeght (France) © Alberto Giacometti Estate / by SIAE in Italy 2019]